domenica 28 febbraio 2010

MIKIS MANTAKAS VIVE!

Il 24 febbraio 1975 iniziava, presso il Tribunale penale di Roma, il processo contro i tre attivisti di Potere operaio accusati di aver deliberatamente provocato un incendio nella casa di Mario Mattei, segretario della sezione missina di Primavalle, causando la morte dei suoi due figli.

Nella giornata stabilita il processo inizia. All’esterno del tribunale le forze dell’ordine presidiano la piazza, e la stessa cosa avviene nelle piazze più importanti dei quartieri confinanti con il palazzo di giustizia. Fin dalle prime ore della mattinata folti gruppi di extraparlamentari di sinistra tentano di aggredire i giovani di destra che stazionano fuori del tribunale non essendo riusciti ad entrare in aula. Nonostante la presenza delle forze dell’ordine, nascono sporadici tafferugli. Poco dopo i vari gruppi di sinistra, riunitisi per l’occasione, danno vita ad una vera e propria guerriglia urbana, provocando vari feriti anche tra i passanti. Stesse scene di violenza nei tre giorni seguenti, in cui gli extraparlamentari, con manifesti e appelli sui giornali e radio di sinistra, invitano tutte le forze antifasciste a partecipare al processo.

L’invito viene raccolto e il 28 febbraio, giorno della terza udienza del processo, già dalle sei di mattina confluiscono nella zona del tribunale gruppi di attivisti equipaggiati per la guerriglia urbana. Già alle 6.30 del mattino si verificano i primi incidenti: un dirigente del FDG viene aggredito a colpi di pistola, per fortuna senza conseguenze.
Poco dopo un gruppo di circa cento extraparlamentari di sinistra compie un attacco in forze ai giovani di destra che stanno entrando in tribunale: una pioggia di sassi e bastoni tempesta i ragazzi di destra, che non possono fare altro che premere sulla porta del tribunale. Vengono anche sparati alcuni colpi di pistola, che raggiungono uno dei giovani di destra alla gamba. Accerchiati dagli avversari, i giovani di destra riescono ad entrare in tribunale dopo che qualcuno ha aperto la porta.
L’assalto è durato qualche minuto e vari giovani di destra sono costretti a ricorrere alle cure dei sanitari per le ferite riportate.
Intanto in aula inizia l’udienza. La tensione rimane comunque alta: nella sala antistante l’aula processuale si verifica uno scontro tra un giovane di destra ed un extraparlamentare di sinistra, fermati e identificati dalla polizia: il secondo, Alvaro Lojacono, sarà rilasciato poco dopo le 11.00 per l’intercessione di un senatore del PCI. Tornato in libertà, si allontana seguito da un gruppo di extraparlamentari.
Mezz’ora dopo, quasi fosse un piano prestabilito, diversi focolai di guerriglia si accendono nei dintorni di Piazzale Clodio. Alle 11.30 si forma un corteo che scorrazza per venti minuti, fino a sciogliersi improvvisamente: il gruppo più consistente, circa cinquecento persone, ingaggia una durissima lotta contro la polizia, quasi a coprire lo sganciamento di un altro gruppo di circa ottanta attivisti, che si allontana inosservato in piccoli gruppi. Il grosso del gruppo tenta prima un assalto alla sede della RAI di via Teulada, impedito dalle forze dell’ordine, poi brucia alcuni cassonetti e ingaggia nuovamente scontri con la polizia.
Nel frattempo il gruppo che si era staccato dal corteo alle 12.45 circonda un’autocivetta della polizia e aggredisce violentemente gli agenti a bordo, minacciando con varie pistole un agente accorso in aiuto dei colleghi.
Il gruppo, dileguatosi rapidamente, si dirige verso via Ottaviano, evidentemente sapendo che i giovani del MSI, dopo i gravi incidenti della mattinata, si sono rifugiati nella loro sede sita proprio in via Ottaviano. Alle 13.15 circa inizia l’azione degli extraparlamentari di sinistra che culminerà con l’omicidio di MIKIS. I comunisti arrivano in via Ottaviano alla spicciolata: sono oltre cento, mentre nella sede missina si trovano non più di venticinque persone. Fuori del portone non c’è nessuno che si accorge della manovra di avvicinamento. Non sono presenti neanche le forze dell’ordine.
Dal gruppo degli aggressori partono le prime bottiglie incendiarie, che vanno a colpire il portone d’ingresso dello stabile nel cui sottoscala si trova la sezione missina. I giovani del MSI escono immediatamente, ma non possono raggiungere la strada perché tutto il tratto di corridoio che conduce al portone è invaso dalle fiamme e dal fumo. Probabilmente a questo punto qualcuno degli aggressori apre il fuoco verso l’ingresso dello stabile ma i giovani assediati, nel trambusto, non se ne accorgono. Tra i giovani missini c’è qualcuno che, superato il muro di fiamme, riesce a raggiungere il portone prima che i comunisti riescano ad entrare.
I giovani assediati si dirigono a questo punto verso l’altra uscita del palazzo, alla quale si arriva attraversando un cortile interno, che si affaccia su Piazza Risorgimento. Dal portone sulla piazza i giovani del MSI riescono ad uscire, dirigendosi verso l’angolo tra Piazza Risorgimento e via Ottaviano. Non sono più di una decina, e tra loro c’è Mantakas. I comunisti si accorgono della manovra e fingono di ripiegare su via Ottaviano. Alcuni di loro però si appostano dall’altra parte della strada, mentre il grosso si allontana.
Appena i giovani di destra giungono all’angolo i comunisti, disposti a raggiera di fronte all’angolo stesso, aprono il fuoco. Avanti a tutti, in mezzo alla strada, Alvaro Lojacono, armato di una pistola a tamburo di grosso calibro. Sono attimi tremendi: sottoposti al fuoco incrociato di almeno cinque pistole, i giovani missini cercano rifugio dietro le auto parcheggiate. Vengono esplosi numerosi colpi e la velocità di fuoco dei comunisti, confermata da alcuni testimoni, è impressionante.
Sotto il fuoco cade MIKIS MANTAKAS, colpito alla testa da un proiettile che gli attraversa tutto il cervello. A questo punto i comunisti si ritirano, non prima di aver lanciato alcune molotov. Solo ora i missini si accorgono che uno di loro è gravemente ferito: Mikis è a terra in una pozza di sangue, senza conoscenza. I camerati sollevano il suo corpo e lo trasportano a braccia all’interno del portone di Piazza Risorgimento, dal quale erano usciti pochi minuti prima.
I comunisti tentano immediatamente un nuovo attacco in forze, dirigendosi velocemente verso l’entrata che i missini tentano di guadagnare. Avviene quindi la seconda parte dell’assalto: gli aggressori si accalcano all’ingresso e lanciano alcune bottiglie molotov, una delle quali colpisce il corpo di Mikis. Ne nasce un durissimo scontro, nel quale hanno momentaneamente la meglio i missini, che riescono a chiudere il portone. Dall’esterno gli aggressori si avventano sul portone stesso, che inizia a cedere sotto i loro colpi. All’interno gli assediati provvedono ad allontanare il corpo di Mikis da dietro il portone e si allontanano dal corridoio, ripiegando nel cortiletto interno e chiudendo una porta a vetri ed un cancello che dividono l’ingresso dal cortile.
Prevedendo che da un momento all’altro il portone avrebbe ceduto sotto i colpi degli aggressori, i giovani del MSI, una volta trasportato nel cortile il corpo esanime di Mikis, lo richiudono dentro un garage privato. Proprio nel momento in cui i comunisti sfondano il portone, i giovani missini chiudono la saracinesca: uno di loro resta vicino a Mikis che, dal momento in cui è stato colpito, è privo di conoscenza. Altri cercano rifugio nella sezione sentendo che, appena entrati nel corridoio, i comunisti hanno sparato. Alcuni ragazzi riescono ad entrare ma altri rimangono fuori: non sapendo che vi era stata una momentanea interruzione dell’energia elettrica infatti, uno dei missini con un movimento brusco e involontario chiude il portoncino blindato della sezione, che si aziona con un congegno elettrico. Chi è dentro la sezione quindi non può più uscire ad aiutare gli altri che sono rimasti fuori.
Mentre all’interno della sezione missina si cerca disperatamente di ripristinare la corrente, i comunisti superano facilmente la porta vetrata e la cancellata, non smettendo mai di sparare. I giovani del MSI rimasti fuori dalla sezione intanto, per non restare intrappolati, ritornano nel cortiletto. Prima di loro giungono però gli aggressori che, avendo sentito il rumore di una saracinesca che si chiudeva e credendo che all’interno vi fossero alcuni dei loro avversari, sparano numerosi colpi verso il garage centrale, che si trovano di fronte appena entrati e dove ritengono si siano rifugiati i missini. L’errore salva senza dubbio la vita del giovane che era rimasto a custodire il corpo di Mikis. E’ l’attimo in cui irrompono nel cortile anche i missini rimasti fuori dalla sezione.
Tra gli aggressori c’è un attimo di sbandamento: evidentemente non si accorgono dell’esiguità del numero e credono che stia per uscire il grosso degli avversari. Mentre la maggior parte dei comunisti fugge per il portone appena sfondato, una parte di loro resta nel cortile, dove prima lancia alcune molotov e poi apre di nuovo il fuoco, colpendo ad un fianco un ragazzo del FDG di 17 anni. A questo punto, mentre i giovani di destra cercano di portare al riparo il ragazzo ferito, i comunisti fuggono. Nel frattempo quelli rimasti chiusi nella sezione riescono a sfondare la porta e si dirigono verso il portone di via Ottaviano, con l’intento di inseguire gli aggressori: costoro sono però riusciti a far perdere le loro tracce, confondendosi nel fuggi fuggi generale conseguente alla sparatoria, nella quale peraltro è rimasto ferito anche un passante. Le vittime della furia omicida dei rossi sono quindi tre. Il più grave è senz’altro Mikis, che perde dalla testa e subisce una fuoriuscita di materia cerebrale. Sono trascorsi 15 minuti dall’inizio dell’assalto e le forze dell’ordine ancora non sono intervenute.
Pochi attimi dopo l’assalto transita per Piazza Risorgimento un appuntato di PS che, vedendosi attraversare la strada da due persone armate, si getta all’inseguimento dei due fuggitivi, che fanno fuoco contro di lui. Essendosi divisi nella fuga, il poliziotto ne insegue uno, che entra improvvisamente in un portone. L’agente, temendo un agguato, lo attende fuori. Poi decide di entrare nello stabile; in quel momento sta uscendo un ragazzo, che non ha un soprabito come la persona inseguita. L’appuntato però lo riconosce e lo blocca. A questo punto l’altro fuggitivo torna sui suoi passi e spara all’indirizzo dell’agente, dileguandosi poco dopo. L’agente riesce a chiamare rinforzi, che prendono in consegna l’arrestato, che si chiama Fabrizio Panzieri. In una delle tasche dell’impermeabile indossato dal fuggitivo, ritrovato all’interno del portone in cui era entrato, viene ritrovata una pistola ancora calda.
Intanto a Piazza Risorgimento, circa dieci minuti dopo che era terminato l’assalto, giungono i primi soccorsi. Mentre Mikis è sempre disteso all’interno del cortiletto, arriva infatti un’ambulanza dei vigili del fuoco, che porta il ragazzo al Santo Spirito. Dopo cinque minuti iniziano ad arrivare le prime volanti, che danno vita ad uno spettacolare quanto inutile carosello, assolutamente inidoneo a rintracciare i responsabili dell’agguato.
Due giovani missini sono a questo punto avvicinati da una persona che dice di essere stato testimone oculare dell’intera scena: dice che i comunisti con le armi in pugno erano almeno cinque, e che gli sono passati davanti durante la fuga. I giovani missini si allontanano un attimo per andare ad avvisare i carabinieri, e quando tornano il testimone è misteriosamente sparito. Di lui non si saprà più nulla.
All’ospedale Santo Spirito i medici si accorgono subito della gravità delle condizioni di Mikis: il giovane greco è in coma. Dopo numerose trasfusioni, si decide di trasferirlo al San Camillo per operarlo d’urgenza. Quando arriva in ambulanza sono le 14.30. Si continua con le trasfusioni, non essendo possibile operarlo subito a causa della fortissima emorragia. Alle 15.30 i medici decidono di operare comunque. Poco dopo le 16.00 inizia l’operazione, nel corso della quale viene estratto un proiettile di grosso calibro. L’intervento dura poco più di due ore. Alla sua conclusione, mentre i medici sono intenti a suturare, MIKIS MUORE.
Nella tarda serata del giorno successivo, dopo una serie di voci non confermate, si apprende da un servizio dell’ANSA che la persona che ha sparato contro Mantakas uccidendolo ed è poi fuggito insieme a Panzieri è Alvaro Lojacono.
Il 3 marzo il MSI annuncia per il pomeriggio una cerimonia funebre in memoria di Mantakas: la zona adiacente la chiesa è presidiata da un ingente schieramento di forze dell’ordine, che non riescono però ad impedire una serie di gravi incidenti. Nella chiesa intanto, in un clima di forte commozione, si portano a termine i funerali di Mantakas.
Alle 20.45 dello stesso giorno un dispaccio ANSA afferma che sono stati emessi due ordini di cattura per l’omicidio di Mikis Mantakas: uno contro Alvaro Lojacono, l’altro contro Enrico Panzieri. Da questo momento comincia per Lojacono il periodo di latitanza, favorito dal PCI, del quale il padre è un pezzo grosso. Riesce infatti ad espatriare e per l’omicidio di Mantakas, per il quale è stato condannato a 16 anni di reclusione, non si fa neanche un giorno di carcere. La latitanza di questo assassino si è finalmente conclusa il 2 giugno 2000 in un villaggio vacanze in Corsica, quando è stato arrestato dalla polizia francese.
Quello di Mikis è l’ennesimo omicidio impunito di un giovane idealista che credeva nella libertà e nel coraggio, che lottava quotidianamente per dare concretezza ai suoi ideali. Il suo sacrificio, come quello di tutti i ragazzi che come lui hanno dato la vita per quello in cui credevano, deve essere per noi uno stimolo fortissimo a non lasciarci scoraggiare dalle difficoltà quotidiane, a continuare nell’impegno che loro prima di noi hanno portato avanti, a tenere sempre in alto la fiaccola dell’idea che le loro mani non possono più stringere ma che ora brucia fiera nelle nostre.

Ο ΜΙΚΗΣ ΜΑΝΤΑΚΑΣ ΖΕΙ - Η ΑΝΑΜΝΗΣΗ ΤΟΥ ΠΑΡΑΜΕΝΕΙ ΖΩΝΤΑΝΗ ΣΤΙΣ ΚΑΡΔΙΕΣ ΜΑΣ, ΣΤΟΝ ΑΓΩΝΑ ΜΑΣ, ΣΤΟ ΑΥΡΙΟ ΠΟΥ ΜΑΣ ΠΕΡΙΜΕΝΕΙ ! ! !
MIKIS MANTAKAS VIVE - IL SUO RICORDO RIMANE VIVO NEI NOSTRI CUORI, NELLA NOSTRA LOTTA, NEL DOMANI CHE CI ASPETTA ! ! !

Il Nucleo Quadraro Cinecitta' rende onore alla memoria di un martire europeo.

sabato 27 febbraio 2010

CUBA, ONDATA DI SCIOPERI DELLA FAME: CACCIA AI BLOGGER PER LE VIE DELL'AVANA

Il grido di Yoani Sanchez sul Web:
«Il regime non conosce la libertà»
La situazione a Cuba dopo la morte di Orlando Zapata Tamayo continua a essere incandescente. Quattro prigionieri e un dissidente hanno cominciato nelle ultime ore uno sciopero della fame per protestare contro le autorità che hanno lasciato morire l’operaio di 42 anni. Il dissidente più famoso, in sciopero di fame da mercoledì nella sua abitazione di Santa Clara (centro dell’isola), è il giornalista Guillermo Farinas (foto sopra). Farinas ha fatto diversi scioperi della fame, l’ultimo di sei mesi nel 2006, quando le autorità lo hanno alimentato per via intravenosa. I prigionieri Eduardo Diaz Fleitas e Diosdado Gonzalez Marrero hanno cominciato lo sciopero mercoledì, Fidel Suarez Cruz e Nelson Molinet Espinoso giovedì. Tutti quanti si trovano incarcerati a Pinar del Rio (ovest dell’isola). La blogger Yoani Sanchez sta raccontando la situazione, sempre più convulsa: «Abbiamo seminato un seme di libertà, giustizia e amore- scrive su Twiiter-. Valori che loro non conoscono e per questo motivo li temono sopra ogni altra cosa». Claudio Fuentes è stato allontanato con la forza da una mostra cinematografica di giovani registi, insieme ai familiari di Zapata. Un gruppo di agenti della Sicurezza di Stato- fanno sapere i dissidenti- si è messo a gridare insulti ai blogger all’esterno del cinema Chaplin, impedendo l’ingresso in sala.
«In queste ore il nervosismo degli organi repressivi è palpabile», dice la Sánchez. Il cinema Chaplin era circondato dalla polizia che decideva chi far entrare e chi no, allontanando con la forza le persone non gradite. «Fino a quando la cultura sarà al servizio di un’ideologia? Perché dobbiamo sopportare questa assurda esclusione culturale?», si chiede Yoani.
La commissione di diritti umani e la famiglia di Zapata hanno accusato il governo della morte del dissidente, il quale è stato trasferito nel reparto di terapia intensiva quando, secondo loro, la situazione era ormai irreversibile. Il presidente Raul Castro si è detto dispiaciuto della morte di Zapata, negando che a Cuba ci siano torture. Secondo la Ccdhrn, a Cuba ci sono almeno 201 «prigionieri politici». Per le autorità cubane i dissidenti sono «mercenari» pagati dagli Stati Uniti.

NQC - Fonte: "La Stampa.it"

CUBA: MORTO IL DISSIDENTE ZAPATA.

L'AVANA - Il dissidente cubano Orlando Zapata Tamayo, 42 anni, è morto all'ospedale dell'Avana, dove era ricoverato dopo 85 giorni di sciopero della fame. Era stato arrestato nel 2003 e condannato a 36 anni per diversi reati, fra cui vilipendio di Fidel Castro. «È stato un omicidio premeditato» ha detto la madre, Reina Tamayo Dange. Le condizioni di Zapata si erano aggravate martedì mattina: trasferito in un ospedale tra i più attrezzati dell'Avana, è morto poche ore dopo.

«COLPA DEGLI USA» - Il fratello del líder máximo e attuale presidente, Raúl Castro, si è detto dispiaciuto ma ha aggiunto che il decesso è «il risultato dei rapporti con gli Stati Uniti» e del loro comportamento. A Cuba, spiega, «non ci sono torturati, non ci sono stati torturati, non c'e stata alcuna esecuzione. Queste cose succedono alla Base di Guantanamo». Castro ha fatto queste dichiarazioni al Porto di Mariel, mentre era insieme al presidente brasiliano Lula.

USA: LIBERARE 200 DETENUTI - Opposta l'opinione del Direttorio democratico cubano di Miami, secondo cui Zapata «è stato assassinato dal regime castrista che gli ha negato i diritti più elementari». Oswaldo Paya, leader del Movimento cristiano di liberazione, ha aggiunto che è morto per difendere «la libertà, i diritti e la dignità di tutti i cubani». Gli Stati Uniti dal canto loro hanno chiesto «la liberazione immediata di oltre 200 prigionieri politici ingiustamente detenuti». In una nota del Dipartimento di Stato si ricorda che pochi giorni fa una delegazione Usa aveva sollevato la questione della detenzione di Zapata e delle sue cattive condizioni di salute con i funzionari cubani, «sollecitandoli a provvedere con urgenza la assistenza medica necessaria».

«BRUTALMENTE COLPITI» - Zapata aveva avuto il sostegno di Amnesty International in quanto detenuto solo per le sue idee e aveva avviato uno sciopero della fame per protestare contro le dure condizioni cui era sottoposto in carcere. Faceva parte di un gruppo di 75 dissidenti detenuti dal 2003: 53 di loro sono ancora in carcere. Secondo la Commissione cubana dei diritti umani e riconciliazione nazionale (illegale, ma tollerata), una ventina di oppositori sono stati «brutalmente colpiti e fermati» questo mese a Camaguey durante le proteste contro il «trattamento crudele e inumano» subito da Zapata.

IL PRESIDENTE LULA - Nella notte è atterrato a Cuba il presidente brasiliano Lula per incontrare Fidel Castro e il fratello Raul. Giorni fa i 53 dissidenti detenuti gli avevano scritto una lettera chiedendo di perorare la loro causa davanti ai dirigenti cubani. Alcuni dei condannati devono scontare fino a 28 anni in quanto accusati di essere «mercenari degli Usa».

NUCLEO QUADRARO CINECITTA' - Fonte: "La Repubblica.it"

NO ALLA PEDOFILIA - ALDO BUSI E LE SUE ALLUCINANTI TEORIE


Questa mattina in una radio sportiva, il noto conduttore M.C. portava coraggiosamente alla ribalta, in seguito alle numerose segnalazioni fatte dagli ascoltatori alla redazione radiofonica, l’agghiacciante episodio che vede protagonista il “signor” Aldo Busi. Il fattaccio riguarda una gravissima affermazione a sfondo pedofilo che il Busi ha pronunciato durante una puntata del programma “Maurizio Costanzo Show: Uno contro tutti, tutti contro uno”, risalente al 1996. Durante la puntata lo scrittore lombardo, omosessuale dichiarato, esternò un proprio pensiero che già da tempo avvalorava su “Babilonia”, una rivista omosessuale. Il Busi si impegnava a spiegare che c’erano due tipi di “pedofilia”, quella buona e quella cattiva.
Nello specifico, citando le parole dal Corriere della Sera del 15 dicembre 1996: -“Non vedo nulla di scandaloso se un ragazzino compie atti sessuali con una persona più grande” ha detto Busi nel corso della trasmissione, rivelando che sarebbe stato più volte contattato da alcuni genitori che gli avrebbero “affidato” i loro figli giovanissimi … non è peccato se un ragazzino consenziente fa una "sega" ad un adulto …”-.
Alcuni giorni dopo sempre sul Corriere della Sera, gli venne concesso nuovamente spazio per chiarire meglio il suo pensiero. Aldo Busi ci tenne a specificare che per pedofilia “buona” intendeva quella che aveva per “oggetto” i ragazzini di età superiore ai 14 anni (come se a quell’età si possa avere la maturità sufficiente per intraprendere rapporti di natura sessuale con un adulto) e di conseguenza, per pedofilia “cattiva” lo scrittore intendeva quella “criminale organizzata”, che ha per vittime i bambini di età inferiore. Come se le colpe e le intenzioni di chi volesse avere rapporti sessuali con un quattordicenne siano diverse da quelle di chi volesse averne con un bambino di 10 anni. Non ci deve essere distinzioni tra “pedofilia” e “efebofilia”: entrambi sono esempi di “Parafilia”, cioè quell’istinto compulsivo che spinge un adulto verso un bambino non ancora sessualmente sviluppato (pedofilia) o verso un ragazzino sessualmente sviluppato (efebofilia), ed entrambi sono crimini immorali e illegali! Qui non si sta parlando di corpi pronti geneticamente per procreare, quando si parla di pedofilia si intende in un modo più ampio, quei bambini e ragazzini non maturi, non pronti per avere un rapporto sessuale con un adulto o anziano. Le affermazioni di Busi sono le stesse che oggi verrebbero giustamente considerate un inneggiamento alla pedofilia culturale. E continuando, sempre sul noto quotidiano, attaccò anche la Chiesa, condannandola, affinché i suoi dogmi morali non fossero più da intralcio per la libertà sessuale. Dopo aver esposto le sue allucinanti teorie in un programma molto popolare, come il Maurizio Costanzo Show, e dopo essere stato attaccato dalla Chiesa e dalle diverse testate giornalistiche, alcune delle quali gli diedero anche spazi per poter rivedere le sue teorie, anche il TG4, condotto da Emilio Fede, in una fascia oraria di massima visibilità, gli concesse la possibilità di "riformulare", per la terza volta, il suo concetto.
Era il 13 dicembre 1996 e Aldo Busi invece, confermò le sue tesi: “Io sono per la sessualità del bambino” e aggiunse: “Sì, i bambini sono sanamente perversi”.
Dopo le terribili affermazioni fatte, un vespaio di polemiche venne sollevato, al punto che l’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia, l’On. Carlo Giovanardi, ospite durante quella puntata assieme anche a Vittorio Sgarbi, inviò numerose lettere di protesta e prese una netta posizione di contrasto nei confronti di Aldo Busi, condannandone fermamente le dichiarazioni.
Fin qui il ricordo della triste cronaca. Ora è d’obbligo soffermarci a riflettere su alcuni punti fondamentali.
Come qualcuno di voi forse ricorderà, lo scrittore monteclarense, nel 2003 partecipò al programma televisivo di Canale 5 “Amici” di Maria De Filippi in qualità di insegnante di cultura generale e di comportamento. Ora ce lo ritroviamo come “naufrago” nella trasmissione “L’isola dei famosi”. Mi chiedo come sia possibile.
Nel corso della nostra storia recente, purtroppo, sono stati molti (troppi) gli episodi di “mala-scuola”, che hanno avuto come protagonisti negativi non i soliti deficienti bulli, ma coloro che dovrebbero appartenere alla categoria di educatori e formatori della futura gioventù italiana. E così le cronache quotidiane si sono riempite di porno-professoresse, di maestre d’asilo che picchiano i neonati, di bidelli impazziti o peggio ancora di insegnanti che abusano dei propri alunni, dalle università agli asili nido.
Questi turpi soggetti, sono tutti chi più chi meno, sotto processo o quanto meno sono stati sospesi e allontanati dal loro lavoro. Aldo Busi al contrario, sette anni dopo quelle dichiarazioni, venne chiamato ad insegnare comportamento e cultura agli alunni del noto programma televisivo: allucinante.
Ma non finisce qui. Da tempo si combatte giustamente una battaglia per punire chi bestemmia in televisione, nello sport e nelle manifestazioni pubbliche, affinché certe deprecabili cattive abitudini vengano definitivamente e finalmente estirpate dal nostro vocabolario quotidiano. Numerosi sono gli esempi al riguardo, dai reality show fino alle partite di calcio, in cui i concorrenti venivano tempestivamente eliminati o gli atleti severamente puniti con pesanti squalifiche. Allora perché non applicare la stessa linea di condotta anche con chi si macchia di simili affermazioni come il Busi? Non me ne vorrà il Buon Dio, ma la pedofilia (anche solo verbale) è un reato ben più grave delle imprecazioni sacre. E invece ci ritroviamo tranquillamente in prima serata, sui nostri teleschermi, un soggetto che inneggia molto chiaramente alla pedofilia, cercando di motivarla attraverso deliranti distinzioni anagrafiche. Distinzioni e teorie che fino ad oggi non sono mai state smentite dal diretto interessato. Distinzioni e teorie che non possiamo accettare, ma solo condannare. Ora basta. Siamo stufi di questi pseudo artisti che dietro alla loro natura di radical-chic da quattro soldi, mascherano le loro perversioni e depravazioni, dalla droga fino alla pedofilia. La cosa inquietante è che il video in cui lo scrittore cianciava dal palco del Costanzo nazionale sembra essere sparito dalla rete, come se la gente non avesse memoria o documentazioni alternative. Altro che il Grande Fratello di George Orwell. Roba da far rabbrividire. E incazzare. Evidentemente le “lobby” pedofile sono più radicate e potenti di quel che sappiamo. Fatevi pure un giro su internet, tra organizzazioni per l’amore verso i ragazzini e manifestazioni di candele dai balconi, giornate per l’orgoglio pedofilo fino alle ignobili pagine su facebook. E dopo esservi sentiti male, rivolgete il vostro pensiero ai vostri figli, nipoti e a voi stessi. Un solo messaggio deve passare. Chi si macchia di crimini verso i minori, non deve essere capito, ma severamente punito. NO ALLA PEDOFILIA!

-ACCIO-
NUCLEO QUADRARO CINECITTA’

Di seguito pubblico i link usati come fonti:

http://denunciapedofilia.spazioblog.it/ (il testo integrale dell’articolo di Busi apparso sulla rivista “Babilonia” nel 1996 dal titolo “Scusi, mi dà una caramella?”)

http://www.dalpaesedeibalocchi.com/2009/08/pedofilia-maurizio-costanzo-aldo-busi-vittorio-sgarbi-e-lon-giovanardi-cosa-successe-nel-lontano-1996/ (da cui è stato tratto l’articolo)

http://forum.radicali.it/content/omofobia-e-pedofobia-le-due-facce-della-stessa-medaglia (da galera)

http://www.soschild.org/modules.php?name=News&file=article&sid=446  (da piangere)

http://www.youtube.com/watch?v=cmHRZwLZavA&feature=PlayList&p=A4B8C9050FC965B8&playnext=1&playnext_from=PL&index=31 (il video incriminante)

martedì 16 febbraio 2010

MINACCE DI MORTE AL CONSIGLIERE PROVINCIALE ENRICO FOLGORI (PDL)

Il "Nucleo Quadraro Cinecittà PDL-Giovane Italia" esprime tutta la propria solidarietà al consigliere provinciale l'On. Enrico Folgori per il vile atto intimidatorio e vandalico subito.

Di seguito è raccontata la cronaca del grave episodio, ripresa dalle pagine del sito de "Il Giornale":

"Roma - martedì 16 febbraio 2010
Atto intimidatorio nei confronti del consigliere provinciale del Pdl Enrico Folgori: la sua auto, parcheggiata in via Lucio Mario Perpetuo al Quadraro, è stata oggetto di un atto vandalico. All’interno dell’auto, seriamente danneggiata, è stata rovesciata una tanica di benzina. Inoltre nella parte anteriore e posteriore sono comparsi due identici simboli con falce e martello e la scritta «Folgori boia, morirai». Lo denuncia lo stesso Folgori che aggiunge di essere «spaventato». «Ma chiunque sia stato - conclude - non mi fermerà nella mia attività politica che porto avanti da anni. Certo è abbastanza inquietante che questo atto avvenga proprio in concomitanza con l’apertura della sede del Pdl al Quadraro». A Folgori è giunta la solidarietà del sindaco Alemanno. «Il gesto vigliacco di intimidazione - sostiene il primo cittadino - non deve scoraggiarlo perché ha l’appoggio di tutti noi, come dimostrano ampiamente le attestazioni di solidarietà che sta ricevendo da tutte le forze politiche senza distinzioni. Auspico che gli investigatori individuino rapidamente gli autori di questo gesto: la violenza a Roma non la vogliamo. Né con la falce e il martello né con le svastiche». Solidarietà a Folgori anche da parte del presidente della Provincia Nicola Zingaretti: «Nell’esprimere la mia solidarietà e quella dell’amministrazione provinciale al consigliere Enrico Folgori, vittima di un ingiustificabile e intollerabile episodio di vandalismo e intimidazione, auspico che i responsabili vengano identificati al più presto». Gli ha fatto eco il coordinatore romano del Pdl e deputato Gianni Sammarco: «Un gesto che si commenta da solo - ha detto esprimendo la sua solidarietà - e che spero veda presto incriminati gli autori». Infine per Marco Pomarici, presidente del consiglio comunale «il confronto politico si dovrebbe svolgere civilmente, nelle apposite sedi e con gli strumenti convenzionali, che non sono certo le bombolette spray di qualche provocatore». «Esprimo la mia solidarietà al consigliere del Pdl alla Provincia di Roma, Enrico Folgori, vittima di un gesto intimidatorio messo in atto da ignoti. Sulla sua autovettura, completamente danneggiata, è apparsa una scritta dal sapore inequivocabile di minaccia: «Folgori, boia morirai»."

martedì 9 febbraio 2010

PAOLO DI NELLA 09/02/1983 - 09/02/2010


PAOLO E' VIVO
E LOTTA INSIEME A NOI!

"Noi non siamo uomini d'oggi, siamo nati in un tempo sbagliato. Ma siamo nati per davvero."
Paolo amava il suo quartiere, e proprio in nome di questo amore aveva programmato una battaglia per l'esproprio di Villa Chigi, che voleva far destinare a centro sociale e culturale. Per far partecipare gli abitanti del quartiere a questa battaglia sociale, il 3 febbraio sarebbe dovuta cominciare una raccolta di firme. Paolo, impegnato in prima persona nell'iniziativa, aveva dedicato gran parte della giornata del 2 ad affiggere manifesti che la rendevano pubblica. Dopo una breve interruzione, l'affissione riprese alle 22. Durante il percorso non ci furono incidenti, anche se Paolo e la giovane militante che lo accompagnava, notarono alcune presenze sospette. Verso le 0.45 Paolo si accingeva ad affiggere manifesti su un cartellone situato su uno spartitraffico di piazza Gondar. Qui sostavano due ragazzi che, appena Paolo voltò loro le spalle per mettere la colla, si diressero di corsa verso di lui. Uno di loro lo colpì alla testa. Poi, sempre di corsa, fuggirono per via Lagotana. Paolo, ancora stordito per il colpo, si diresse alla macchina, da dove la ragazza che lo accompagnava aveva assistito impotente alla scena.Dopo essersi sciacquato ad una fontanella la ferita ancora sanguinante, Paolo riportò in sede i manifesti e il secchio di colla. Verso l'1.30, rientrò a casa. I genitori lo sentirono lavarsi i capelli, muoversi inquieto e lamentarsi. Lo soccorsero chiamando un'ambulanza, che però arrivò quando ormai Paolo era già in coma. Solo nella tarda mattinata del giorno dopo, il 3 febbraio, Paolo venne operato, e gli vennero asportati due ematomi e un tratto di cranio frantumato. Le prime indagini furono condotte con estrema superficialità dal dirigente della Digos romana incaricato del caso, il dottor Marchionne. Non ci furono infatti né perquisizioni, né fermi di polizia tra gli esponenti dell'Autonomia Operaia del quartiere Africano. La ragazza che era con Paolo, unica testimone dell'agguato, venne interrogata dagli inquirenti che, più che all'accertamento dei fatti, sembravano interessati alla struttura organizzativa del Fronte della gioventù e ai nomi dei suoi dirigenti, magari per dar corpo all'ignobile storiella della "faida interna". L'istruttoria sembrò avere una solerte ripresa quando al capezzale di Paolo arrivò anche l'allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Passato però il momento di risonanza dovuto a questo gesto, tutto tornò ad essere chiuso in un cassetto. La sera del 9 febbraio, alle 20,05, dopo sette giorni di coma, la solitaria lotta di Paolo contro la morte giunse a termine.

Seguirono giorni di forte tensione, in cui finalmente gli inquirenti si decisero, almeno apparentemente, a dare concretezza alle indagini. Vennero finalmente fatte alcune perquisizioni nelle case dei più noti esponenti dei Collettivi autonomi di Valmelaina e dell'Africano. Uno dei massimi sospettati era Corrado Quarra, individuato perché non nuovo ad aggressioni a ragazzi di destra. Dopo aver tentato varie volte di sottrarsi all'incontro con i magistrati, comportamento che non fece altro che confermare i sospetti su di lui, venne arrestato per caso la notte del 1 agosto 1983. In un confronto all'americana Daniela, la ragazza che era con Paolo quella notte, lo riconobbe come colui che materialmente lo aveva colpito. In conseguenza dell'avvenuto riconoscimento il fermo di polizia a suo carico divenne ordine di cattura per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Dopo tre mesi di silenzio, il 3 novembre, la ragazza venne convocata per il secondo riconoscimento. Concentrandosi sulle caratteristiche somatiche della persona che accompagnava lo sprangatore, Daniela indicò il secondo presunto aggressore.A questo punto si rivelò il tranello in cui era caduta: il giovane da lei riconosciuto non era l'indiziato, ma un amico da lui appositamente scelto. Inoltre costui non doveva essere riconosciuto come complice dello sprangatore, ma come alternativa al Quarra nella persona dello sprangatore. A questo punto il giudice istruttore, dottor Calabria, disse alla ragazza che, se aveva sbagliato il secondo riconoscimento poteva aver sbagliato anche il primo. Discorso finalizzato a facilitare la scarcerazione del Quarra che avvenne il 28 dicembre.

Questo proscioglimento, che segnò la fine delle indagini sull'omicidio di Paolo, fu passato sotto silenzio.

(Fonte: testo e immagini tratte dal dossier redatto dal Nucleo Trieste-Salario)

sabato 6 febbraio 2010

"Profumo d'Italia"
(SECONDA EDIZIONE)

Appuntamento per ricordare la tragedia delle foibe e la storia dell'italianità delle terre istriano-giuliano-dalmate.

 

INCONTRO E DIBATTITO CON:
Giorgia Meloni (Ministro Gioventù)
Laura Marsilio (Assessore politiche educative scolastiche di Roma)
Valentina Aprea (Presidente Commissione Cultura)
Roberto Menia (Sottosegretario Commissione Ambiente)
Mariella Novelli (Direttore ufficio scolastico Regionale)
Mario Micich (Direttore museo dell'archivio storico di Fiume)
Moderatore: Dott. Blasevich (Presidente Comitato 10 Febbraio)

ORGANIZZATORI:
Comitato 10 Febbraio e Associazione ACERO

lunedì 1 febbraio 2010

I conti con la storia

Lo aspettarono sotto casa, a Città Studi. E lo aggredirono selvaggiamente a colpi di chiave inglese. Sergio Ramelli, studente dell’istituto Molinari con simpatie per il Msi, cercò di difendersi, ma non ebbe scampo. Rimase in coma quarantasette giorni, morì il 29 aprile 1975. Non aveva ancora diciannove anni, era un ragazzo o poco più, ma per il servizio d’ordine di Avanguardia operaia il suo fascismo meritava una lezione. Definitiva. E così fu.


Quell’episodio raggelante torna ora d’attualità, perché uno dei protagonisti di quella storia, Antonio Belpiede, condannato a 7 anni per omicidio volontario, è diventato primario. Sì, primario del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Canosa di Puglia. Belpiede non ha vinto una gara, perché il concorso si terrà solo nei prossimi mesi, ma un anno fa, quando si liberò il posto, i vertici della Asl Bat (Barletta-Andria-Trani) hanno scelto lui fra i candidati all’incarico. Così, sia pure in forma provvisoria, Belpiede è diventato dirigente dello Stato. Nulla di irregolare, per carità, semmai un problema di opportunità che il direttore generale della Asl Rocco Pianosa, area Rifondazione comunista, rispedisce al mittente: «Alla direzione della Asl risulta che il dottor Belpiede non abbia al momento alcuna pendenza penale. Il dottor Belpiede è stato nominato direttore facente funzione dell’Unità operativa di ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Canosa dopo una valutazione di tutti i curricula dei medici del reparto. A breve sarà espletato il concorso per nominare il primario».

Ancor più netto l’interessato: «Io vado avanti a testa alta. Non ho partecipato a quell’azione, non ho ucciso nessuno, sono innocente, ho subito una condanna vergognosa. Certo, ero membro del Servizio d’ordine di Avanguardia operaia, ma non so nulla dell’omicidio Ramelli. So invece che dopo la laurea in medicina tornai in Puglia e ho dedicato una vita al lavoro e all’impegno per i pazienti. Quel posto, per quanto provvisorio, è il premio per anni e anni di fatica e abnegazione».

Certo, la storia giudiziaria di molti episodi degli Anni di piombo è ancora controversa. Nel caso di Ramelli la verità arrivò solo dopo dieci anni, grazie all’indagine condotta a metà degli anni Ottanta da Guido Salvini e Maurizio Grigo. Con tenacia e dopo moltissimi interrogatori, i giudici arrivarono alla squadra di Medicina di Avanguardia operaia. Il gruppo che aveva firmato l’omicidio. Non solo: le indagini portarono anche a scoprire, in un abbaino di viale Bligny, un gigantesco archivio in cui Avanguardia operaia aveva schedato centinaia di nemici con tanto di foto, dati biografici, appunti con le abitudini e gli stili di vita. Avanguardia Operaia aveva una lunga tradizione di militarizzazione della lotta politica. Già a maggio ’69, ben prima di piazza Fontana, sul giornale omonimo si poteva leggere: «Anche il capoccia, anche il ruffiano, anche il dirigente, sono uomini come noi. Quando sono in fabbrica si fanno grossi approfittando della forza del padrone, ma quando escono diventano degli individui isolati. Sono persone fisiche che soffrono in caso di percosse, sono persone che proverebbero vivo dispiacere scoprendo la loro auto distrutta; sono persone che hanno una casa... È importante individuare il nemico, personalizzarlo, dargli nome e cognome».



L’omicidio Ramelli viene da questa pratica di violenza e intimidazione. Ramelli fu oggetto di una persecuzione scientifica per mesi: fu picchiato, minacciato, insultato. In particolare, il 13 gennaio ’75 era stato circondato da un’ottantina di studenti e costretto a cancellare con vernice bianca scritte fasciste apparse sui muri del Molinari; e sempre a scuola aveva subito addirittura un processo politico per aver scritto un tema troppo sbilanciato a destra. Infine, il 13 marzo, ecco l’agguato. Sergio Ramelli viene ricoverato al Policlinico in condizioni disperate. Gli hanno sfondato il cranio. Ma il ragazzo non vuole morire. Resiste per un mese e mezzo. Un’agonia straziante, le visite della madre, piccoli cenni di miglioramento, poi il 29 aprile il collasso e la morte. E non basta, perché il giorno prima un gruppo di facinorosi ha raggiunto la casa dei Ramelli gridando slogan contro il fratello Luigi e minacciando pure lui. Questa è la Milano di metà anni Settanta, in cui i funerali si svolgono in forma semiclandestina per motivi di ordine pubblico. E la memoria di Ramelli si riduce a ben poca cosa: una foto che mostra un ragazzo con i capelli lunghi e gli occhi castani.

Dieci anni dopo l’indagine e le condanne. Prima per omicidio preterintenzionale, poi, in appello, per omicidio volontario. Belpiede, secondo la ricostruzione della magistratura, avrebbe partecipato all’aggressione con un ruolo di copertura. Lui nega: «Non c’ero quel giorno in via Amadeo». In primo grado gli danno 13 anni, in appello 7, pena confermata in Cassazione. «Sono rimasto in cella un paio d’anni - spiega lui al Giornale - quando mi hanno arrestato ero capogruppo del Pci a Cerignola, ho lasciato per sempre la politica, è stata una tragedia. Violante mi ha consolato e l’avvocato di parte civile Ignazio La Russa mi ha rincuorato. Voglio ricordare che sono stato condannato sulla base di dichiarazioni di pentiti che si ricordavano a malapena chi fossi. Ora non ho niente di cui pentirmi. Ho solo svolto con passione il mio lavoro di ginecologo». Oggi Belpiede si tiene stretto il suo posto di primario.

da ilgiornale.it

30 Gennaio 1972: Bloody Sunday